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Tradizioni pasquali (Sarezzo Brescia)
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imperatrice2

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MessaggioInviato: Mar Mar 21, 09:00:32 Rispondi citando

Antiche tradizioni del tempo pasquale

Il 9 giugno 1538 gli “homini del Comune di Serezo”, riuniti nell’antica chiesa parrocchiale, stipularono con l’intagliatore bresciano Maffeo Olivieri il contratto per la costruzione di “uno Crocifixo grande de braza tre e mezzo […] bello ben fatto e ben lavorato”. Erano presenti all’incontro anche “Giacomo de Zan e Simon frer abitanti a Zenà”. A Sarezzo c’erano a quel tempo tre Confraternite religiose: quella dell’Immacolata Concezione, del Corpo di Cristo e della Santa Croce, i cui confratelli erano tenuti a provvedere le candele dell’altare minore addossato alla parete meridionale della chiesa, detto appunto della Santa Croce. Nella nuova parrocchiale del 600 l’altare, con la statua del Cristo morto e la tela di Antonio Gandino, è tutt’oggi dedicato alla Crocifissione. L’antichissimo culto della Croce si accentuava nel periodo quaresimale, tempo di penitenza che faceva rima con astinenza. Non la carne soltanto veniva a mancare, ma ogni pur piccolo “piacere”. Le nonne deponevano le tabacchiere, gli uomini disertavano le osterie, le giovani dovevano dimenticare specchi e belletti. Nello stesso tempo aumentavano le pratiche religiose prescritte dalle consuetudini e, talvolta, degli Statuti comunali. La gente, a gruppetti, scendeva dalla Valle di Gombio, da Zanano e da Noboli e affluiva all’unica parrocchiale di Sarezzo per il mercoledì delle Ceneri. “Memento homo quia pulvis es…” cominciava la pratica della “Via Crucis”, si preparavano i Quaresimali ed i “Tridui” in suffragio dei defunti.

I quaresimali consistevano in una serie di prediche solitamente tenute da un frate cappuccino che veniva a stabilirsi a Sarezzo per tutto il periodo della Quaresima.

Nel 1679 il parroco don Pietro Saleri (originario di Lumezzane) “lascia al comune di Sarezzo la casa, l’orto, il brolo contiguo alla piazza, affinché il loro frutto sia utilizzato nel mantenere il Rev.do Padre Cappuccino che ogni anno viene a predicare al tempo della Quaresima e Festa di Pasqua”.

(La casa è quella che ancora oggi vediamo “contigua alla piazza”).

Il 1° febbraio 1710 gli uomini del comune di Sarezzo deliberano di “supplicare il Rev.mo Padre Provinciale de’ Cappuccini che si voglia degnare darci un Rev. Padre Predicatore virtuoso per la Quadragesimale prossima ventura, obbligandosi questa Comunità far le spese conforme il solito di questi prossimi anni passati delli scudi N°40 per il detto Padre Predicatore”.

I Tridui erano tre giorni di preghiera con l’esposizione del Santissimo. (Un richiamo ai tre giorni in cui il corpo di Cristo rimase nel sepolcro, ma anche alla credenza antica che l’anima lasciasse il corpo soltanto il terzo giorno dalla morte). Questa pratica, portata dai Cappuccini nelle valli bresciane, si diffuse in tutta la Valtrompia dopo il 1630 come rito di suffragio per i morti a causa della peste che tanto funestò il comune di Sarezzo.

Il terzo giorno dei Tridui era dedicato alle preghiere sulle tombe del cimitero parrocchiale e alla visita ai “morcc de la Canonega” in prossimità di Cogozzo.

Il Santissimo veniva esposto al centro di un enorme apparato di legno, detto “la macchina dei tridui”, con sculture e decorazioni, colmo di fiori e centinaia di candele accese.

Nel 1807 il sindaco di Sarezzo ordinò di costruire una di queste macchine al falegname Giovanni Mazzoleni. Accadde però che, a lavoro ultimato, gli uomini del comune si rifiutarono di pagare il compenso di lire 250 all’artigiano. Solo nel 1814 il comune deliberò di soddisfare le richieste del Mazzoleni con la somma di lire 100.

Trascorsa la terza domenica di Quaresima, c’era un giorno di sospensione delle pratiche penitenziali; era il giovedì grasso, la zobia graha, in cui era lecito fare baldoria. La tavola tornava imbandita con carne di maiale e per un giorno intero le nonne spadellavano lattughe e frittelle. A notte inoltrata tutti si davano appuntamento in piazza per assistere al rogo della “vecchia”. Si cacciava così quanto era vecchio e brutto nella speranza di andare incontro ad un futuro migliore. Ma l’indomani era ancora Quaresima. E tanto più austera quanto più la Pasqua si avvicinava. Gli altari della chiesa tornavano spogli; le statue ed i crocifissi erano coperti da veli violacei.

Si arrivava così alla domenica della Palme o degli Olivi. Nel ‘500 era compito del comune acquistare i rami di olivo da distribuire ai fedeli per la processione. La lettura della Passione diventava narrazione a più voci, in buona parte cantata in lingua volgare, misto di latino e dialetto, a cui prendevano parte anche i fedeli. Al termine della messa, i rami benedetti venivano portati a casa e appesi accanto alle immagini sacre come oggetti propiziatori. All’avvicinarsi di un temporale si bruciavano all’aperto per scongiurare la grandine; nel mese di maggio si bruciavano nelle stanze dove erano allevati i bachi da seta per ottenere una abbondante produzione di bozzoli.

Nei primi secoli del medioevo i grandi riti del triduo pasquale, giovedì venerdì e sabato santo, iniziavano verso la mezzanotte e duravano fino all’alba, erano una lunga veglia di preghiera, letture e litanie che si concludeva con il “Mattutino” sull’esempio dei monasteri benedettini. La messa del giovedì, detta “in coena Domini”, aveva il suo momento emotivamente più forte al canto del Gloria accompagnato dal suono di tutte le campane e dell’organo. Dopodiché le campane venivano “legate” perché non suonassero fino alla Resurrezione. I contadini levavano i campanacci alle mucche e nascondevano ogni strumento musicale.

Le cerimonie cristiane del medioevo avevano fatto propri molti aspetti delle ancestrali ricorrenze pagane legate alle fasi lunari, al cambiamento stagionale, al folclore popolare. Così all’approssimarsi della Pasqua (la cui data è legata al plenilunio di primavera) c’erano i riti della purificazione con l’acqua e con il fuoco; le donne pulivano ogni angolo della casa, buttavano ciò che era inutile e vecchio, portavano al sole pagliericci, mantelli e palandrane, mentre gli uomini riordinavano stalle, porticati e cortili. Ai ragazzi toccava il compito di far tornare splendenti le catene del focolare trascinandole per le strade del paese. Di sera ardevano i falò degli oggetti buttati e della sterpaglia rastrellata.

La cerimonia del venerdì era annunciata dal gracidare delle raganelle - dette gri, racole, maitì - strumenti di legno costruiti d’inverno nelle stalle, provvisti di una ruota dentata che, fatta ruotare velocemente, produceva un rumore assordante. Ogni ragazzo che ne possedeva una girava per le strade chiamando i fedeli. Iniziava la “messa secca” (senza la consacrazione) frequentatissima da ragazzi e adulti. Era la notte detta dei “maitì” (da “mattutino” preghiera mattutina dei monaci), si faceva memoria del “mistero” della Passione di Cristo, un rito che diventava sacra rappresentazione in cui i presenti erano gli attori di un coinvolgente teatro popolare. Al momento dell’arresto di Cristo, iniziava il tramestio dei fedeli che diventava tumulto quando entravano in scena i ragazzi con le loro raganelle. La cerimonia si concludeva con il bacio del Crocifisso e la benedizione con la reliquia della santa Croce.

A questo proposito ricordo che la reliquia “in croce cristallina”, custodita preso l’altare del Sacro Cuore, nella parrocchiale ed esposta alla venerazione in tempo di Quaresima, è un prezioso dono del prete Giovanni Battista Montini, figlio del dottor Carlo e di Angela Bailo, nato a Sarezzo nel 1685. Sul libro delle “Parti” leggiamo che il 10 maggio 1733 i sindaci del comune comunicano alla General Vicinia che “l’illustrissimo e molto Reverendo Signor don Giò Batta Montino [...] ha manifestato la di lui pia intenzione di voler honorare questo Pubblico et Terra tutta di Sarezzo col dono di una pretiosissima croce del Adorabile Legno della S.ma Croce, in cui il nostro Sig. Gesù Cristo volle per sua infinita Clemenza morire per la redenzione del Genere umano”.

Il sabato santo un uomo, su incarico del comune, si recava a Brescia in cattedrale per ritirare l’ampolla degli Olii Santi da usare per i battesimi. Sempre il comune doveva comperare il cero pasquale grande e quello piccolo che serviva per leggere la Passione. All’acquisto contribuiva anche il parroco con un ducato. La cerimonia iniziava nottetempo con il rito del fuoco, della terra, dell’acqua, elementi carichi di profondo simbolismo con il Risorto (luce-vita-pietra angolare). Sul sagrato era pronta una catasta di legna; ogni luce tutt’intorno era spenta. Il fuoco veniva acceso facendo sprizzare le scintille da due pietre. Con la fiamma benedetta si accendeva il cero grande e, via via, le candele degli astanti, mentre si illuminavano la chiesa e le case del paese. Con l’acqua lustrale si aspergevano i fedeli, il pavimento, le pareti della chiesa. Al canto del Gloria esplodeva il suono dell’organo e delle campane, le persone si abbracciavano in segno di gioia. Chi era in casa faceva il segno di croce e correva a bagnarsi gli occhi per conservare la vista, le mamme immergevano i fanciulli in una tinozza d’acqua per farli crescere robusti, le giovani si bagnavano i capelli e il viso per diventare più belle…

L’acqua e i carboni del fuoco benedetto avevano il potere di tenere lontana ogni malattia e sventura.

“Fare Pasqua” voleva dire andare a messa con la famiglia indossando qualcosa di nuovo: una camicetta con i fiocchi, una giacca inamidata, il primo paio di scarpe… era cantare il “Gloria ineccelsindeo”, tra le volute dell’incenso, “fare” la Comunione secondo l’antico precetto “confessarsi una volta all’anno e comunicarsi almeno a Pasqua”. Infine - contecc come ‘na Pasqua - tornare a casa e trovare la tavola con la tovaglia bianca, il fiasco di vino, il pane croccante, le uova colorate e (magari!) il pollo ripieno o un cosciotto di agnello arrosto.

Dopo tanto digiuno un poco di abbondanza ci voleva. Per tutti. A Pasqua il comune distribuiva pane, sale e talvolta anche del denaro alle famiglie più povere. Bartolomeo Bombardieri di Noboli, con testamento del 12 aprile 1612, lasciò al comune la somma di lire 350 perché “ogni anno a Pasqua si faccia la distribuzione di due some di formento fatto in pani da darsi ai poveri del comune e tanto sale agli Antichi Originari”. Questa dispensa durò fino al 1806 quando venne soppressa dal governo giacobino.

Nel secolo XIV° i riti pasquali furono anticipati alle ore pomeridiane e finirono poi per essere celebrati al mattino. Era un’incongruenza che la riforma liturgica degli anni 1953-1955 cercò di sanare. Si ritornò all’uso antichissimo di celebrare i riti a notte inoltrata cercando, ove possibile, di rispettare la tradizione liturgica. Ma nel frattempo, con il tramonto della millenaria civiltà contadina, vennero a cadere le antiche tradizioni popolari. Era inevitabile. Oggi, da più parti, si cerca di recuperare qualche aspetto del nostro passato. Ma non sarà mai come prima.

Roberto Simoni
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MessaggioInviato: Mar Mar 21, 09:00:32






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